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Francesco Cataluccio, Prefazione
Francesco Cataluccio
Prefazione
Di Ottone Costantini (1889-1975) l’archivio di famiglia conserva, tra il materiale vario della sua corrispondenza, un folto gruppo di lettere inviate a persone a lui care nel periodo (luglio 1915-novembre 1918) del suo servizio militare sul fronte delle operazioni in un reparto di artiglieria pesante, da graduato prima e quindi da sottufficiale (sergente nel dicembre 1916, sergente maggiore nel febbraio 1918). Sempre in riferimento alla grande guerra vi si trovano un breve saggio rievocativo intitolato “Dalla Bainsizza a Caporetto” che egli scrisse verosimilmente in una occasione celebrativa, ed un certo numero di poesie, riunite sotto il titolo “Ricordi di guerra. 1915-1918”, in cui, già avanti negli anni, ritrovava nella memoria momenti della drammatica avventura, stati d’animo d’allora, aspetti umani e atmosfere ambientali dell’esperienza compiuta. Questo volume contiene soltanto il pacchetto delle lettere, integrate, allo scopo di chiarirne meglio i temi e i toni, dalla voce dei lontani corrispondenti e destinatari, in primo luogo Sandra Andenna, sua collega d’ufficio, divenuta alla mobilitazione sua “madrina di guerra”, poi (1917) fidanzata e che sposerà a fine guerra (settembre 1921): una interlocutrice di precoce (era nata nel dicembre del 1896) consistente individualità per risorse d’entusiasmo e per fermo carattere.
Circa quattro anni or sono, in un incontro nella sua serena casa genovese in quel di Castelletto con Claudio Costantini, figlio di Ottone e mio collega nell’insegnamento universitario, la nostra conversazione cadde ad un tratto sul padre e sulle lettere da questi spedite ai familiari dal fronte delle guerra italo-austriaca. Avendo io espresso la curiosità di dare uno sguardo a qualcuna delle lettere, egli andò a prendermi uno dei cartoni in cui si trovavano racchiuse. Per quanto fosse frettoloso e parziale, l’esame del materiale mi diede subito l’impressione d’avere davanti una fonte documentaria ed uno stile epistolare di valida sostanza, sì che fui indotto a pregare il mio amichevole padrone di casa che mi desse modo in altra occasione di riprendere un contatto meno sommario con la corrispondenza. Fui cortesemente accontentato al di là del richiesto: pochi giorni dopo mi consegnò una fotocopia dell’essenziale in suo possesso. La nuova più calma e sistematica lettura mutò la mia iniziale sensazione positiva in convinta presa d’atto che Ottone aveva lasciato col suo epistolario di guerra un documento di qualità sia come testimonianza dell’evento storico in sé, nei vari risvolti visti da un osservatorio marginale ma umanamente rappresentativo, sia per l’agile stile epistolare prodotto dal corretto uso linguistico e dai continui lineari passaggi dalla cronaca su uomini e fatti circostanti ai propri secchi commenti reattivi.
In effetti le lettere rivelavano in Ottone un osservatore attento, equilibrato nei giudizi, misurato nelle reazioni al comportamento delle persone e agli imprevisti nelle vicende del suo reparto e del fronte bellico in generale, ricco di idealità ma non astratte o retoriche, volto a vivere il logorante giuoco della guerra nella duplice simultanea prospettiva del dovere da compiere e della tenace salvaguardia della propria individualità culturale e sentimentale. Sorprendevano in esse l’immediatezza di tono, il gusto del particolare, la freschezza dei chiaroscuri, la costante vicinanza dell’orrore della guerra, mai però calcato, e della nostalgia del suo lontano mondo familiare e cittadino. La condizioni di vita, rischi e rancori, slanci e avvilimenti, urli di ribellione e sussurri di speranza, ombrose viltà e luci d’altruismo, sconforti e rimpianti, la gamma cioè di reazioni dei combattenti ai pericoli e alle sofferenze dei loro giorni nella guerra, avevano eco autentica e sensibile, fedele testimonianza nelle lettere di Ottone.
Premetti in conseguenza sul collega Claudio perché si orientasse a pubblicarle. Vi si è alfine deciso dopo lunga riflessione obbedendo senza dubbio più a considerazioni di storico che al parere filiale.
Al pregio complessivo della corrispondenza di Ottone Costantini dal fronte contribuiscono tre caratteristiche di fondo. La prima – ho già notato – è data dall’atteggiamento psicologico e culturale del giovane mobilitato. Questi non è mosso né da esasperata ripugnanza alla prova cui è chiamato né da velleità avventurista o cieca sirena patriottarda, è incline all’ascolto sia della voce del dovere civico che dei richiami affettivi e familiari, non è mai paralizzato o fortemente compresso dall’istinto di conservazione ma è calcolatamente coraggioso, convinto com’è che la guerra in corso sia stata inevitabile e che deriveranno larghi vantaggi allo sviluppo interno e all’ascesa internazionale del Paese dal successo, ritenuto definitivo, sull’Impero asburgico. A tale convinzione si collegano anche talune sue annotazioni su aspetti militari politici e sociali del conflitto. Chiarezza formale e tono delle lettere rispecchiano bene il bisogno di misura e la vigilanza critica sulla manifestazione dei propri sentimenti e stati d’animo, alternantisi con naturale contraddizione agli alti e bassi della vicenda bellica e della propria predisposizione reattiva dei singoli momenti.
Il secondo elemento caratterizzante sta nel fatto che le lettere coprono l’intero arco di tempo della guerra, risultando come un compatto diario, da un particolare immutato angolo di osservazione, della vita d’un soldato al fronte.
Ultima caratteristica di peso, la sovrapposizione e l’intreccio dei problemi personali e del dialogo sentimentale coi temi relativi allo sviluppo delle operazioni al fronte. Le lettere fondono con ricca varietà di trapassi fasi politico-militari e preoccupazioni di più approfondita conoscenza reciproca, di più intensa solidarietà, di progressiva chiarificazione del legame avviato con Sandra – legame che lontananza e circostanze di vita favorevoli alle reazioni emotive colorano inizialmente di qualche piccola frizione e, dal giugno 1916 all’aprile 1917, anche d’un puntiglioso dissenso –. I due paralleli nuclei, quello degli eventi di guerra e l’altro del patrimonio affettivo, dell’auspicio d’incolume uscita dalla tormenta per approdare alla duratura vicinanza con la donna cara, si muovono come se ciascuno facesse da sottofondo all’altro: l’uno ricco di particolari sul piccolo settore di scontro armato in cui Ottone è attore e non poco insistente su deviazioni e ribalderie del “fronte interno” e su condotta di classi sociali, e l’altro, presente di continuo quasi nel ruolo di ammorbidire e smussare l’aspro quadro bellico.
Nato a Osimo, figlio insieme ad altri sette di genitori di piccola borghesia, la mobilitazione lo trovò trasferito a Roma, con un impiego – “contabile” precisa il suo foglio matricolare – alla A.E.G. Nell’ambiente burocratico-sociale della capitale aveva assorbito un certo culto dell’impegno civile inclinante ad un linguaggio un po’ acceso sui valori patriottici e respirato con soddisfazione l’atmosfera interventista di livello d’annunziano. A dado tratto, però, la sua partecipazione alla prova collettiva procede con cauta coerenza, con dignitosi passi, senza veri cedimenti a delusioni di comodo ed opportunismi di calcolo personale, sempre pronto a tonificarsi con l’oculata interpretazione del complesso ingranaggio che pare voler stritolarlo. Non che, come suole accadere nell’età ch’era allora la sua, non reagisca d’istinto ai risvolti lieti e a quelli di segno avverso e che a volte non abbia facili canti di vittoria o esplosioni di acerbe paure del peggio, ma altrettanto rapidamente imbocca la via per un più pacato sguardo su vicende e persone, per un realistico aggiustamento d’impressioni e valutazioni.
Una chiara prova a riguardo è fornita dalle lettere del periodo di Caporetto, quando intorno tutto sembrava franare e per ogni dove si fronteggiavano accuse di codardia e di tradimento, d’incapacità e di premeditato sabotaggio: egli si sposta in fretta dall’avvilito stordimento all’individuazione di motivi di fiducia circa il tamponamento della falla militare, dal collasso psicologico alla valorizzazione dei minimi segni di reazione positiva nei reparti e nel Paese, punta i piedi, condanna il disfattismo, grida il proposito di compiere interamente la sua parte per l’avvio del riscatto nazionale. Allorché, a crisi militare ormai in via di superamento, alcune missive di Sandra gli appaiono troppo ottimiste sugli ulteriori sviluppi del conflitto e troppo esuberanti di sdegno morale per la situazione interna italiana turbata da imboscati accaparratori e speculatori d’ogni veste, insiste (lettere del 23 gennaio e 6 giugno 1918 in particolare) a ricordarle la necessità di “un po’ di moderazione, un po’ di positività”, di non drammatizzare in modo eccessivo avvenimenti e comportamenti, a non giudicare a netti chiaroscuri. Per suo conto, dà l’esempio, di moderazione e positività, via via sempre più al di là di qualche loro episodica incrinatura con toni alti e sovrabbondanza espressiva o a commento di fatti militari diversi dalle sue attese o per nostalgia affettiva delle lontane persone care o per contrattempi e attriti di reparto – il 13 agosto 1917 definisce il suo capitano “vampiro dispotico ed incosciente, che non à sentimenti di patria e uccide nei dipendenti ogni slancio d’entusiasmo, ogni nobile aspirazione”–. Le due “virtù” gli sono facilitate in partenza dallo spirito riflessivo e dall’intelligenza critica che ha connaturati, ma le acquisisce più saldamente, con paziente esercizio, nei due anni prima dello sfondamento austro-ungarico a Caporetto, sulla spinta delle circostanze di lotta, sì da fargli controllare nel modo più appropriato la drammatica esperienza dell’ottobre-novembre 1917. Sulle varie sfaccettature del combattente – paura spavalderia retorica dubbi accoramenti –, a lui per certo non del tutto estranee, sovrappone una lucidità di sguardo, un puntiglio reattivo e soprattutto una “positività” che, appunto, ha il suo retroterra nella bussola psicologica e culturale che ha guidato la sua linea di condotta da graduato e da sergente fino allora, e di cui fanno fede osservazioni giudizi riflessioni della corrispondenza, spontaneamente aderenti alle concrete situazioni del momento, agli umori d’animo legati alle vicissitudini della sua batteria, alle notizie giunte dai familiari, al complessivo clima dei fronti militare e interno di guerra, fattori tutti di mutamento volta a volta delle prospettive sul futuro proprio, dei suoi e del Paese.
Caporetto per altro rappresentò una sorta di spartiacque nella maturazione dell’uomo Ottone. Dall’epistolario appare indubbio un balzo nel suo modo di sentire la vita, di concepire la scala dei valori esistenziali. Egli reagisce più nettamente a quanto lo coinvolge direttamente o indirettamente, prende maggiore consapevolezza del suo patrimonio di idee e di aspirazioni, con l’esigenza di raffrontarle alle altrui, accentua la tendenza a vedere più articolata la realtà e ad esaminarla senza i paraocchi d’un ottimismo o pessimismo pregiudiziali. È come se si dedicasse ad una operazione di accelerato sfrondamento in sé del sovrapposto dall’esterno allo scopo di riconquistare l’immagine con cui meglio si identifica. La già citata lettera del 23 gennaio 1918 ricorda a Sandra che il suo antico concetto della vita rimane immutato: “concetto un po’ idealistico e poetico (i miei amici mi chiamavano il poeta, non so se a torto o a ragione) e un po’ materialistico e crudo, come il sogno d’una fantasia percossa e smussata da una lunga esperienza”.
Poco prima, in due lettere del 20 ottobre e del 14 novembre 1917, ha fornito a Sandra precise indicazioni d’orientamento sui due aspetti del proprio “antico concetto della vita”. Si legge nella prima:
Ò innanzi a me un piccolo quadruccio di paesaggio invernale! In un velario scialbo di bruma radi alberelli intristiti e grondanti di pioggia. Anche le belle voci della natura festosa dei giorni di sole tacciono, quasi soffocate dallo scroscio interminabile delle acque. È un piccolo spettacolo malinconico e quieto che sto osservando attraverso il finestrino della mia sconnessa baracca, volando col pensiero a cose meno tristi e meno fredde del paesaggio intorno, certo. Un contrasto nuovo di sentimenti, una dissonanza meravigliosa tra l’espressione e l’impressione che farebbe credere sorgere la letizia dalla tristezza delle cose. È un ridestarsi di cari ricordi d’infanzia, un risorgere di momenti indimenticabili del mondo, tanto diverso e buono, della fanciullezza. Non so perché con più insistenza mi si riaffaccia il ricordo delle or lontanissime visite al cimitero, nel giorno dei morti, quando ancor bambino seguivo il babbo per la passeggiata tanto nuova fuori città, con un freddo così intenso. E la mia meraviglia di allora vedere tanta gente, in giornate così oscure. E quell’andare movimentato e pur solenne come un corteo, quell’insolito bisbigliare sommesso... Forse in quei lontani giorni si formava nella meditazione sui poveri tumuli nascosti e sulle pompose tombe il mio carattere muto. O quando più tardi, nell’età che ai ragazzi è nutrimento il sollazzo chiassoso, il mio animo cercava le rive solitarie e oscure del [fiume] per sbrigliarsi in sogni infiniti, in speculazioni sublimi. Ricordo le interminabili ore avvolto e confuso nell’ombra lunare, coll’immobilità contemplativa di un vecchio filosofo, preso in una visione di luce nuova. E fuggivo spesso da quei luoghi deserti, impaurito dal mistero dell’infinito, dell’universo, del creato, dell’inafferrabilità del tempo, dello spazio. Dissolvevo l’universo nel caos per rintracciarne le origini e lo spettacolo mi spaventava!... Più tardi ancora il mio pensiero sviscerava con affetto temi più afferrabili e si dilettava portare la vita in forme nuove di progresso e di giustizia che accomunavano l’antico col nuovo. E mai Licurgo o Pericle o Napoleone osarono più di me!... [1]
Non meno illuminante è ciò che scrive nella seconda lettera sul concetto “crudo”, per certo influenzato in larga parte dall’atmosfera di urto sanguinoso in corso:
Mi sento tanto cambiato. Irascibile, collerico, insofferente; sento più odio che affetto. Ò acquistata quella convinzione che ripudiai sempre: di ritenere il mondo un impasto di miserie e di perversità brutte. È pur vero che tante ragioni mi trascinano a questo nero pessimismo, ma ciò non toglie che questa nuova coscienza mi gravi d’un peso molestissimo. Sento che per diventar migliore potrò solo chiudermi in un egoismo che vivrà di pochi affetti intimi e vorrà dimenticare l’universo indegno. Ma quello che maggiormente mi atterrisce è la sfiducia calma, serena, sorridente quasi, e priva di titubanze che mi à dominato, vinto irresistibilmente, convintamente. Ò perciò dovuto meravigliarmi di me stesso oggi, che all’appello fatto rivolgere a noi tutti dai comandi superiori, risposi per primo in favore di una pronta partenza per il fronte: volontaria. Ed il mio gesto à trascinato tanti titubanti... Credo sia meglio rimettere ogni commento al dopo guerra. Parlandone allora ci sembrerà di occuparci di storia antica ed eviteremo di rattristarci soverchiamente.[2]
Gli impulsi di acre sfiducia e di amara revisione della propria concezione esistenziale, che lo agitarono in quella fase dell’esperienza di guerra, non oltrepassarono però i confini che gli dettava il suo carattere incline all’equilibrio reattivo e all’autocontrollo. Sopraggiunsero poi le “ore indimenticabili” che, a partire dalla vittoriosa battaglia difensiva del giugno sulla linea del Piave – “ti sembra verosimile che con questi leoni fosse possibile il caso Caporetto?”, la commenta nella lettera a Sandra del 25 giugno, facendo eco velatamente alla polemica ancor viva sulle responsabilità di quanto avvenuto nell’ottobre precedente –, prepararono e accompagnarono lo sfondamento delle linee austro-ungariche nel primo autunno del ‘18 e l’avanzata dello schieramento italiano fino a Vittorio Veneto e all’armistizio di Villa Giusti, a ricreargli del tutto il gusto dell’azione con il suo pezzo di batteria e il tonificante “concetto poetico” della vita e del rapporto con gli altri. Tanto più che all’impegno di lotta sorrideva ormai la “sospirata pace”, preannunzio dell’agognato ritorno al suo mondo di affetti. Le lettere dal giugno al novembre 1918 hanno modulazioni emotive e gioiose, dense pur nella consueta misura, dei ricorrenti temi della pace vittoriosa e del vicino congedo.
Mentre “attende con fiducia e orgoglio l’epilogo delle meravigliose notizie che giungono giornalmente”, trova la via del conforto per Sandra, che gli ha comunicato, assai depressa, la morte della propria sorella minore per attacco della micidiale influenza “spagnola” – anch’egli ha pagato a questa un lieve tributo – in una riflessione che un po’ riassume la lezione umana da lui tratta dall’avventura bellica che l’ha coinvolto:
In quattro anni di questa vita tormentosa di guerra mi sono trovato in condizioni così tragiche ed ò attraversato periodi così critici, che avevo allora la convinzione di non poter sopportare. Eppure tutto passò e oggi appena ne resta un pallido ricordo. La vita normale non ha nulla di diverso da quella di guerra, all’infuori del ritmo un po’ più lento. Si attraversano momenti tormentosi di apprensione e ci sembra che tutto il mondo debba crollare, poi il sereno ritorna improvviso e più splendente di prima.[3]
Se questa riflessione si collega, con naturale coerenza, al carattere e al temperamento già rilevati in Ottone, appare invece una nota nuova, in apparenza non in linea con la sua calda visuale nazionalistica, quella suggeritagli, il 6 giugno, dalla esigenza “pedagogica” di arginare i “sentimentalismi eroici” che tendevano a intensificarsi in Sandra.
Noi tutti - le scrive - uomini di fede, abbiamo fatto voto di sacrificio della nostra vita, per la causa che combattiamo, ma non dimenticare soprattutto che la causa è l’umanità, che il nemico è il militarismo (questo mostruoso complice dei più bassi istinti di cupidigia e di ambizione).[4]
In un momento adatto a spingerlo verso un più alto grido di orgoglio nazionale, egli piega l’animo e la mente ad una più ampia e responsabile individuazione degli obiettivi di guerra, comprimendo fortemente la stretta boria nazionale negli aspetti di potenza e di espansione, cui mostravano già d’inclinare correnti della massa combattentistica e settori d’opinione pubblica italiana.
Ottone rifiniva così, in grande dignità, il suo io umano e civile che era maturato, tra slanci e sconforti, nel corso del conflitto.
[1] Ottone a Sandra, 20 ottobre 1917, n. 139.
[2] Ottone a Sandra, 14 novembre 1917, n. 146.
[3] Ottone a Sandra, 28 ottobre 1918, n. 218.
[4] Ottone a Sandra, 5 o 6 giugno 1918, n. 185.
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Ottone Costantini
Lettere dal fronte
Indice
Francesco Cataluccio
Prefazione
Claudio Costantini
Un contabile alla guerra
Note e avvertenze
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Il primo fronte
1-15 16-29 30-46
Da Asiago alla Bainsizza
47-70 71-94 95-119 120-141
L'ultimo anno
142-163 164-184
185-204 205-222
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